Sono passate
alcune settimane di troppo, lo so, dall’ultima volta che ho scritto un post e
devo dire che ho patito anch’io di non essere riuscito per un mese a scrivere
qui, nell’ambiente in cui mi sento più tranquillo…e mi dispiace che sia
accaduto proprio ora che avevo in testa di parlarvi di molte cose nuove!
Partecipare alla
presentazione di un libro che parla di salute (oggetto del post precedente) è stato
solo una piccola parte degli stimoli che sto ricevendo in quest’ultimo periodo,
ma mi rendo conto, solo dopo questo stop, quanto il tentativo di dare loro
forma e collocazione nella pratica abbia preso il sopravvento e giocato un
brutto scherzo al mio già misero piano editoriale!
Preamboli a
parte, ora ho voglia di tornare a essere concreto e produttivo, per cui oggi riprenderò
dalle solide certezze portando avanti la “cronaca” dalla rassegna Curare e
Narrare che sto seguendo in questi mesi.
Ciò di cui vi parlerò, è la conferenza
tenuta da Lucia Zannini su quello
che è un aspetto spesso trascurato dell’evoluzione della conoscenza medica: il
fatto che essa stessa si costruisca e riproduca attraverso dinamiche narrative.
Pedagogista e dottore
di ricerca in metodologie di formazione del personale medico e infermieristico,
la relatrice si è sempre occupata di formazione all’interno di diversi percorsi
istituiti dall’Università di Milano Bicocca prima e dell’Università degli Studi
di Milano poi.
Attraverso un intervento
dal titolo “La struttura Narrativa della
conoscenza medica: dalle provocazioni di Kathryn Montgomery Hunter
all’integrazione tra Medicina Narrativa e Medicina basata sulle Evidenze” ci
ha condotto attraverso una riflessione profonda sui due approcci e sul loro essere,
solo in parte, antitetici.
Quest’ultima
ipotesi, non vuole assolutamente negare che le due letture della cura siano semanticamente
distinte o abbiano radici diverse (umanesimo vs scienza), ma proporre un’ipotesi
di scenario in cui confluiscano entrambe nel percorso di naturale crescita
della medicina.
Quella appena illustrata è la visione proposta dalla Hunter già nel lontano
1991 con il suo testo Doctor’s stories: the
narrative structure of medical knowledge. Secondo lei, la realtà che medici
e pazienti quotidianamente vivono è fatta di momenti che ben si conoscono, ma
di cui, a suo parere, alcune importanti sfumature di tipo dichiaratamente
narrativo sono tralasciate o ignorate del tutto:
· ANAMNESI = oltre ad essere il momento in
cui medico e paziente entrano fisicamente in contatto e il primo cerca di
capire quale sia problema di salute, si tratta di una fase di confronto con la
persona che sta dietro il corpo e i sintomi che presenta. Quando il
clinico riesce a mettere a fuoco quest’aspetto, sarà in grado di portare avanti
un’indagine su più livelli. Raccogliendo dettagli sulla storia e le abitudini
di vita di chi ha di fronte gli sarà possibile delineare meglio il contesto in
cui gli aspetti clinici hanno preso forma;
· DIAGNOSI = essendo la tappa del percorso
di cura in cui si cerca di definire la condizione di salute/malattia e si
prospettano vari approcci terapeutici, il medico è solito far riferimento alle
casistiche sperimentali e alle statistiche descrittive che ne derivano. Se ha sviluppato la capacità di ascoltare potrà
usufruire di un bagaglio di conoscenze da unire nella pratica giornaliera alle
proprie conoscenze teoriche in modo che le ipotesi cliniche formulate siano
comprensibili e scientificamente solide. Si verrà così a creare un sodalizio
con i suoi assistiti che porterà solo buoni frutti;
·
CONFRONTO
TRA COLLEGHI = come in ogni ambito lavorativo, ci sono svariate circostanze in
cui anche i medici possono avere la possibilità di discutere sulla propria
attività quotidiana. Dalla richiesta contingente di un secondo parere al
classico momento di pausa, non è sempre certo che il dialogo arrivi ad affrontare
in modo profondo ciò che ciascuno vive in ambulatorio. Riuscire,
invece, a far confluire i tanti dettagli rilevati ascoltando le storie di migliaia
di pazienti, consente l’acquisizione di un patrimonio di conoscenze dal punto
di vista clinico, umano e ambientale decisamente rilevante. Oltre a divenire
occasioni di crescita professionale per i singoli possono essere anche letti
come dinamiche di naturale evoluzione per la conoscenza medica generale.
Il bacino d’informazioni da cui si può attingere nella pratica giornaliera
è, indubbiamente, una fonte di spunti istruttivi ben più ampio e circostanziato
di quello che i trial clinici riescono a restituire. Fare tesoro delle
coloriture e delle sfaccettature esperienziali che ciascun essere umano
riferisce è la chiave di volta per affrontare meglio ogni persona che si
presenterà dopo. Tanti più particolari si conoscono, più benefici si avranno nella
capacità di scegliere gli accertamenti diagnostici, terapie e illustrarli al
paziente.
Quando l’attenzione
all’uomo e all’applicazione delle nozioni scientifiche sono considerate in modo
eguale, l’intero processo di assistenza è realmente in grado di affrontare ogni
emergenza e aumentano enormemente le possibilità per la terapia (farmacologica e
non) di essere efficace nel raggiungimento dell’obiettivo: la salute della
persona.
Come una traccia
impercettibile l’impronta emotiva e gli aspetti pratici lasciati dalle storie
dei pazienti nella mente del medico saranno il riferimento su cui confluiscono
tutte le conoscenze (biologiche, nosografiche, farmacologiche, etc.) contribuendo
a consolidare la sua capacità di riflessione e deduzione sulle scelte pratiche da
fare.
Volendo fare un
esempio di come mettere in pratica un simile approccio, sarebbe opportuno che ogni
visita fosse guidata da domande di questo tipo: “Che cosa sta succedendo alla
persona che ho davanti?”, “Quali sono i suoi problemi pratici?” e “Come posso
mettere al servizio le mie conoscenze al suo servizio?”.
Le nozioni
accumulate consentono al clinico di farsi un’idea della situazione di salute
del paziente e questo percepisce di essere parte integrante del processo d’indagine
che riguarda il suo malessere. Solo così la presenza di una patologia biologica,
la scelta della cura potranno essere illustrate senza che siano percepite alla
stregua di elementi estranei e l’assistito potrà affrontare il futuro prossimo
consapevole della sua “nuova vita”.
La medicina,
infatti, dovrebbe essere vista come un corpo pratico in cui le conoscenze
scientifiche confluiscono per il raggiungimento dello scopo finale più che una
scienza per definizione. Non esistono al suo interno schemi fissi ma si
assiste, più che altro, all’applicazione fluida di una serie di soluzioni con
un legame strettissimo alle caratteristiche degli esseri umani che, di volta in
volta, ricoprono il ruolo di operatore e paziente.
La realtà, come
sappiamo, è però molto diversa. Sono anni che ci s’interroga sulle dimensioni e
le cause della mancata aderenza terapeutica, ma se i professionisti sanitari
ponessero come priorità del loro operato, come sostiene Rita Charon, “guadagnare
l’attenzione, la fiducia, il rispetto e l’afffiliazione del paziente in modo
che tutto ciò che lui esprime diventi oggetto di discussione condivisa”, questo
dibattito nemmeno esisterebbe.
Se non vi è presa
di coscienza di ciò che gli succederà da parte dell’assistito, continueranno a
esserci esempi di terapie abbandonate o eseguite in modo sbagliato con tutte le
conseguenze dirette e indirette per il suo stato di salute. Non solo non avrà
un miglioramento delle sue condizioni, ma il clinico rimarrà vittima di un
circolo vizioso in cui è costretto a mettere in continua discussione le sue ipotesi,
le sue certezze verranno sempre meno e non riuscirà a capire come arrivare a una
cura appropriata.
Esattamente nella direzione volta a trovare una
soluzione a questo stallo che si stanno muovendo gli studi degli ultimi anni
che sono volti a integrare in un unico metodo di lavoro gli aspetti narrativi e
scientifici dell’agire medico.
La proposta si
chiama P. A. C. T. (ovvero Problem delineation,
Actions, Choices and Targets), è un modello tuttora in validazione il quale inserisce
obiettivi e risorse della medicina basata sulle evidenze all’interno di una
cornice in cui la pratica clinica ha la dinamica di tipo narrativo descritta
dal pensiero della Charon citato prima.
Secondo lo schema
(vedi figura) le quattro componenti che compongono il nome sono le tappe
descrittive e di gestione del problema clinico del paziente, in altre parole
tutto ciò che appartiene alla relazione tra questi e chi lo ha preso in carico.
Questa sorta di
road map beneficia poi del contributo in termini di nozioni e riferimenti che
viene dalla competenza scientifica per affrontare aspetti concreti come la
terapia, la diagnosi, la prognosi e gli eventuali aspetti critici.
Nello schema, il
ruolo della letteratura e del sapere sembra essere subordinato all’aspetto
relazionale, ma non lo è in senso d’importanza, il messaggio che si vuol far
passare è che ogni aspetto viene preso in esame, discusso e deciso in una
dinamica d’incontro tra i punti di vista del paziente e del medico.
In conclusione, quella poroposta, può essere un buon inizio per sviluppare una comunicazione
aperta fra le parti, facilitare la manifestazione delle emozioni piuttosto che dei
punti di vista di entrambe affinché si inneschi una riflessione comune e la
decisione sulla strategia di cura sia realmente e profondamente condivisa.
A presto,
Andrea
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