giovedì 6 agosto 2015

La parola all'infermiere: riflessioni di Mauro Costabile sugli intrecci tra narrazione e assistenza alla persona

Ciao a tutti,

l'avvetura prosegue con una seconda intervista il cui ospite è Mauro Costabile, infermiere e scrittore che si occupa di accreditamento e qualità dei percorsi assistenziali dopo aver speso diversi anni direttamente in corsia.

Sebbene siamo all'inizio, sono veramente contento di come l'idea di queste interviste venga accolta. E mi riferisco sia a chi mi legge sia a coloro che acconsentono di prendere parte all'avventura rispondendo alle mie domande, per cui non vi sottraggo altro tempo augurandovi buona lettura.





Buongiorno Mauro,  benvenuto su Fuzzy Project e grazie per aver accolto il mio invito a fare due chiacchiere. Ti ho conosciuto grazie al tuo talento di scrittore, incrociando sul web la notizia relativa all’uscita del tuo ultimo libro “Ammesso e non concesso”, in cui hai riproposto in chiave romanzata tante situazioni rappresentative della quotidianità del tuo lavoro di infermiere.


Leggendo le poche righe di presentazione, ho capito che il libro era il frutto di un lungo percorso in cui l’intrecciarsi tra la tua esperienza personale e quella di professionista con le storie delle persone che hai assistito, è diventata uno spunto per riflettere in modo aperto sulla dimensione umana delle cure.    

Prima di entrare nel vivo delle domande che ho preparato, però, vorrei dare ai lettori qualche elemento in più per capire chi sei e permettere loro di conoscere lo scenario in cui ci muoveremo. Se ci parli un po’ di te come persona e come professionista della cura, credo sarà più facile seguire il dialogo che andrà sviluppandosi.

M: Grazie Andrea per l’opportunità di parlare del libro e, soprattutto, del messaggio che voglio trasmettere. 
Sono un infermiere alla soglia dei cinquant’anni, sposato con due figli. Un uomo fortunato, insomma, che ha la consapevolezza di aver fatto un percorso che gli ha permesso di vivere la professione infermieristica sotto i suoi diversi aspetti: assistenziale, tecnico e umano, quindi in maniera piena. 
Un essere infermiere in maniera leggera, che non vuol dire superficiale, ma con la coscienza di avere dei limiti, di fare tutto quello che è nelle possibilità umane e professionali.
Per motivi di salute ho dovuto lasciare l’assistenza diretta e ora me ne occupo da una scrivania. Non è la stessa cosa (anzi è tutt’altro); mi manca il contatto con l’altro, ascoltare le parole, l’odore della sala operatoria, i campanelli della corsia, i colleghi, i litigi, le gioie, le incazzature e tutto quello che faceva parte del mio mondo. 
Quella è un’altra vita, una strada giunta alla fine. E' stato difficile, ma ho lasciato tutto portando con me solo le cose belle.

Da quanto ci hai appena raccontato, per quasi vent’anni hai lavorato in contesti complessi come le unità di terapia intensiva, i reparti di chirurgia e la sala operatoria. Oltre che nella tua attuale sede di Siena, hai lavorato anche in realtà particolari come L’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. 
Presentando il tuo ultimo libro, dici di essere sempre stato accompagnato da un forte desiderio di scrivere riguardo alla tua professione, vuoi dirci da dove nasce questa volontà?

M: Come spesso accade, sono le cose che ci scelgono. Durante tutti questi anni ho annotato quanto mi è successo: storie di pazienti particolari, di una situazione, di un luogo o banalmente di momenti bello. Appunti che ho conservato senza sapere cosa farne.
Un po’ di anni fa ho cominciato a scrivere come terapia, per venir fuori da un momento molto difficile della mia vita; ho preso il mio bel quaderno e ho iniziato. Pagina su pagina, scrivevo appena avevo cinque minuti, di notte e di giorno, ovunque mi trovassi. 
personaggi di quel racconto mi suggerivano le cose che volevano dire (che poi erano le mie cose), mi hanno tenuto compagnia per più di un anno e poi sono spariti quando ho messo la parola fine al racconto. 
Strada facendo, mi sono accorto che scrivere è diventato il mio giardino segreto, mi rifugio per coltivarvi i miei fiori, le mie piante per poi aprirlo solo a lavoro finito, quando le piante sono cresciute e i fiori sono sbocciati.
Il mio desiderio di scrivere della professione è legato alle storie di vita che quotidianamente vivono gli infermieri. Divieni parte della vita dei pazienti, incroci la loro strada. Il bagaglio emotivo diviene sempre più grande e farsene carico non è sempre facile; ma se riesci a fermarti per un attimo e ripensi alle cose fatte, a quelle dette, agli sguardi, i silenzi…in quel momento stai facendo memoria della tua giornata lavorativa, della tua vita e già questo potrebbe bastare. Se poi riesci anche a raccogliere queste sensazioni, a metterle nero su bianco e fare in modo che non si perdano nel tempo, allora il gioco è fatto. È chiaro che parlo di momenti significativi, attimi importanti che ci hanno fatto battere forte il cuore.
Vale sempre la pena raccontare una storia, ma prima bisogna fare in modo che non vada persa.

Quando parli del tuo trascorso lavorativo, sottolinei come l’esserti dovuto allontanare dall’attività sul campo a causa di alcuni problemi di salute, abbia accentuato la voglia di condividere il proprio bagaglio. Il personaggio principale di ”Ammesso e non concesso” è, ovviamente, un infermiere e il ritratto che decidi di farne è quello di un professionista capace e attento alla dimensione umana. Quella appena presentata, soprattutto per gli aspetti legati all’accoglienza dei bisogni e del supporto emotivo, pensi che sia la stessa immagine dell’infermiere che, oggi, arriva al mondo esterno? 

M: Purtroppo, quello che arriva al mondo esterno è sempre strumentalizzato e condizionato dai mezzi di comunicazione; fa notizia l’infermiere che cade in errore, mentre quello che salta i turni di riposo per assicurare il servizio non viene mai menzionato. 
Senza voler fare della facile retorica, fa notizia sempre l’evento eccezionale, l’estemporaneo che crea clamore. Nessuno parla di carenze di personale, della fuga di infermieri all’estero oppure dello sfruttamento economico e professionale al quale la categoria è sottoposta. 
Quando cominci a lavorare in queste condizioni, alla lunga, a rimetterci è il servizio e, di conseguenza, tutti noi utenti. Ci si accorge della nostra esistenza soltanto nel momento del bisogno, quando si resta soli nella corsia di un ospedale, quando l’anestesia generale spaventa e si cerca una mano amica, quando ad ascoltarti non c’è più nessuno tranne noi. 
L’infermiere è quello che ti accoglie, ti chiede come va, mentre parla con te ha già visto se sei capace di deambulare da solo oppure hai bisogno di un presidio, se sei autonomo oppure dipendi dagli altri per soddisfare i tuoi bisogni fondamentali, se hai paura, se sei solo. 
L’infermiere si prende cura dell’altro quando l’altro non può più essere curato.
Noi ci siamo. 

Personalmente, penso che non si parli abbastanza della delicatezza di una fase molto importante come  l’assistenza diretta al paziente sia in ospedale e, ancor di più, nell’ambito di servizi molto complessi come le cure domiciliari. Non credi che queste lacune possano avere come conseguenza il fatto che i cittadini si facciano delle idee sbagliate circa la qualità del percorso di cura?

M: In parte quello che dici è vero. L’utente si presenta sempre con qualche scudo, preconcetti che nel momento del bisogno spariscono, perché l’infermiere è colui che ti tocca, ti vede nudo, ti lava i posti tabù.
Si parte dal concetto che l’altro ha bisogno e si trova, quindi in una posizione di svantaggio; sembra strano, ma spesso s’innescano delle dinamiche di complicità forti, magari legate a qualcosa che si è detto, all’aver notato un particolare al quale nessuno aveva dato peso.
Sono i particolari che fanno la differenza, come sempre. A questo aggiungiamo un livello culturale e sociale si è notevolmente alzato portando tutti ad essere molto preparati e, nello stesso tempo, fuorviati dalle notizie carpite da internet.
Ritornando alla qualità del percorso di cura, posso solo dire che di qualità si parla tanto, forse anche troppo. Abbiamo svuotato la parola dal suo giusto valore, l’abbiamo resa banale e scontata. 
Un percorso di qualità è legato alla realizzazione di cure standardizzate che devono essere adeguate alle necessità del singolo individuo. Tutti abbiamo gli stessi bisogni, ma ognuno di noi li soddisfa in maniera diversa. 
Continuare a dare tutto a tutti non è possibile, ma dare ad ognuno tutto quello di cui ha necessità è fondamentale. 
Continuiamo a parlare di spendig-review, di tagli ma alla fine a rimetterci saremo tutti noi come utenti. 
Non possiamo continuare a penalizzare due pilastri fondamentali della vita di un uomo, la cultura e la salute, la scuola e la sanità. Due ambiti sempre precari, a corto di persone, sottoposti a penalizzazioni che non fanno altro che diminuire il livello di gratificazione di chi vi opera. 
Diventa difficile dare un servizio di qualità se non hai a disposizione le adeguate risorse umane, strumentali e tecnologiche; fai quello che puoi, e finisce per essere la buona volontà del singolo a fare la differenza.

Nello stesso tempo, ritengo che anche il ruolo dell’infermiere non sia preso nella giusta considerazione e dal paziente e da chi gli sta accanto in quanto, durante un percorso di cura, si tende a concentrare l’attenzione solo sul medico. Come vedi questa mia visione della realtà e quanto ritieni controproducente che le persone non abbiano chiaro quanto sia preziosa l’attività di chi si prende cura di loro in misura maggiore?

M: Inizio così:

“Ogni giorno prende rango più elevato la scienza della cura        degli INFERMI, ossia l’arte di ridurre la complessione umana      a tale stato che non abbia malattia, o che possa rimettersi da        malattia. 
 Questa scienza vien riconosciuta quale scienza che ognuno 
 deve capire, da distinguersi dalla scienza medicale, intesa dai 
 professori soltanto.”    
                                            Florence Nightingale (1860)

Sono passati più di 150 anni, ma mi sembra sia cambiato poco; se all’infermiere non viene riconosciuta la giusta considerazione la colpa è di chi non ha voluto questo riconoscimento ma anche degli infermieri che non hanno mai preso la giusta coscienza del ruolo sociale che ricoprono. 
Il prendersi cura è una scienza a parte. E quindi arriviamo alla spinosa storia medico-infermiere. La storia è dalla parte dei medici, i quali sono la figura che da sempre ha dato notizie sullo stato di salute, le terapie alle quali sottoponevano i loro pazienti erano inappellabili, e potrei andare avanti con un lunghissimo excursus. 
È pur vero che  sono loro che rispondono per gli aspetti medico-legali, anche se le cose stanno cambiando e la giurisprudenza si sta adeguando alle responsabilità delle singole professioni. 
Ti parlo della mia esperienza, il punto di partenza è sapere chi sei e qual è il tuo ambito. Personalmente ho sempre avuto molto chiara la mia posizione e sono entrato raramente in contrasto con gli altri professionisti. Di questo ne hanno beneficiato le persone di cui mi 
sono preso cura durante la mia attività. 
Per il resto, bisogna dare tempo ai cambiamenti sociali, una volta l’infermiere aveva una bassa scolarità, mentre adesso abbiamo una preparazione di tipo universitario. Prima era difficile sentir parlare d'infermieristica e oggi tutti scrivono di questa scienza.
La gente sa che esistiamo e che ci prendiamo cura degli altri, siamo una categoria silenziosa cui non piace mettersi in mostra, facciamo il lavoro sporco come i vigili del fuoco, la polizia, carabinieri…
Permettimi di aggiungere due parole per chi sta accanto ai pazienti prendendosene cura: i familiari. Sono un’importantissima risorsa che deve essere adeguatamente informata e formata sul da farsi. 
Spesso, sono quelli che hanno più paura (ancora maggiore di quella del paziente), hanno bisogno di risposte, di tranquillità e anche di verità. 
Errore gravissimo è quello di metterli da parte, di non dargli il giusto peso. A quel punto, diventano degli ostacoli, non riescono ad accettare di dover fare un passo indietro perché loro si sono sempre presi cura della persona cara e lo fanno da anni. Proprio per questo motivo sono fonti d’informazione preziosissime.

È innegabile che l’insorgenza di una patologia rappresenti un elemento di rottura rispetto a un equilibrio esistente e abbia delle conseguenze di un certo rilievo sulla capacità di vedere la realtà che ci circonda con lucidità e il giusto distacco. Nella tua esperienza, quanta influenza hanno sul paziente e sui familiari le ansie e le paure riguardo alla malattia, alla capacità del medico di prendersene cura, all’efficacia delle terapie scelte, etc.?

In secondo luogo, hai mai provato la sensazione di non avere sufficienti tempo/strumenti per intervenire e aiutare queste persone  ad affrontare al meglio le difficoltà che vivono?

M: La malattia provoca in ognuno di noi la perdita dell’equilibrio bio-psico-sociale; ha ripercussioni sul nostro fisico, la nostra mente, le persone che circondano, il lavoro, la vita sociale… 
In pratica, altera il concetto di realtà o meglio di stabilità vissuto fino a quel momento. 
Il nuovo provoca dei cambiamenti e quando quel nuovo si chiama malattia tutto quello che si presenta è negativo. Sono le fasi che ognuno di noi attraversa, con i suoi tempi, le sue modalità e le sue risposte. 
E’ difficile dare delle risposte a chi si trova a vivere uno stato di malattia, entrano in gioco una miriade di fattori e diventa complicato realizzare un approccio standardizzato; ti faccio qualche esempio:

(a) Paziente di 30 anni sposato da poco, manager in carriera, sportivo con l’aspettativa di diventare padre a cui viene diagnosticato una neoplasia al testicolo destro, con probabilità d’interessamento anche del testicolo controlaterale. Radioterapia, chemioterapia, 
intervento chirurgico e forse non sarà mai padre, forse sua moglie non vorrà più fare l’amore con lui, per quanto tempo dovrà stare fuori dal lavoro? E al ritorno cosa racconto?

(b) Cinquantenne che si ritrova in ospedale per un malore, gli vengono fatti tutti una serie di accertamenti perché dice di sentirsi stanco e di aver perso qualche chilo di troppo, gli viene chiesto di fare il test dell’Hiv e dopo un’iniziale rifiuto acconsente al prelievo. Risultato del test positivo, il medico lo tranquillizza per quel che riguarda il trattamento terapeutico, gli dice che non potrà guarire del tutto ma che, con le adeguate precauzioni, potrà continuare a fare una vita “normale” dopo un periodo di convalescenza. Come mi sono contagiato? E’colpa dei miei rapporti occasionali non protetti oppure è colpa di mia moglie? E se lei non c'entra niente e adesso è contagiata? Come inizio, cosa faccio? 

(c) Sessantenne prossimo alla pensione che si ritrova in unità coronaria per un infarto. Terapia farmacologia, nuove abitudini alimentari, stop fumo e alcool…E poi tra sé e sé pensa che ha aspettato tutta una vita per godersi la pensione e adesso il cuore lo ha tradito, il cuore, la sede dell’amore, dei sentimenti, il luogo caro dove tutti si rifugiano.


Potrei andare avanti facendo tanti esempi presi dalla realtà dove si trovano quotidianamente a vivere gli operatori sanitari. Questo è per dire che ogni persona è una storia a se, non può essere rapportato a un altro paziente. Mi spiego meglio, posso standardizzare il tipo di trattamento, farmacologico e/o terapico, ma la modalità con cui mi prenderò cura cambia da persona a persona. In questo gli infermieri sono un po’ artigiani, riescono a fare di ogni assistenza erogata un oggetto unico.


Lasciami spezzare, infine, una lancia in favore del tempo che manca e degli strumenti che sono assenti. La lancia è in favore sia degli infermieri che dei medici o meglio in favore dei tanti professionisti che nonostante non ci siamo i presidi adeguati riescono a tirar giù dal letto il paziente e metterlo seduto su una sedia, in favore di chi ha finito il suo turno di lavoro e spende ancora cinque minuti della sua vita per dare spiegazioni che non gli sono dovute; in favore di chi, dopo 24 ore di lavoro, riesce a trovare ancora la forza di sdrammatizzare su quanto fatto, prima di tornare a casa.

Il mondo è fatto di tante brave persone, facciamo il tifo per loro.

Riuscire ad aprirsi per raccontare ciò che si prova, piuttosto che metterlo giù nero su bianco mediante la scrittura sono strumenti efficaci attraverso i quali “fare i conti” con le emozioni. Recuperare la capacità di guardarsi dentro ed esternare il proprio vissuto è un atto profondamente liberatorio quando si sta affrontando una malattia, ma la tua esperienza insegna come lo possa essere anche per un professionista sanitario. A fronte di ciò, cosa pensi della capacità che la narrazione ha di coinvolgere tutti gli attori del processo di cura proiettandoli verso la ricostruzione condivisa delle relazioni?

M: Ho avuto la fortuna di incontrare lungo mia strada una persona veramente speciale. Mi sono iscritto ad un corso aziendale sulla medicina narrativa, dopo circa un’ora che ero lì ad ascoltare le storie dei relatori mi sono chiesto cosa ci facessi e stavo andando via. Poi la moderatrice prende la parola e comincia a parlare della forza della narrazione, del raccontare le storie, di quanto sarebbe un peccato perdere certe occasioni…e io mi rivedo quando da bambino, a casa dei nonni, ci si metteva tutti intorno al fuoco, a sentire i discorsi dei grandi. 
Noi non potevamo parlare, zitti e ascoltare. Poi mia nonna metteva sul fuoco le castagne, una pannocchia e cominciava a raccontarci un fatterello inventato di sana pianta. E cominciava la magia.
Tutto è cominciato da quel corso, si sono aperte decine di finestre su un nuovo mondo. Credo che raccontare storie sia una cosa fantastica e restare lì ad ascoltarle riesce ad arricchire anche la coscienza più arida. Prestare attenzione a cosa ha da raccontarti un paziente aiuta a capire tanti aspetti che non potranno mai essere raccolti attraverso la compilazione di una cartella, medica o infermieristica che sia.


Quando ho cominciato a scrivere le mie storie ho avuto l’impressione di aver dato giustizia a quelle persone, a quei luoghi, a quelle situazioni. Le ho impresse sulla carta, per sempre. 

Nelle mie presentazioni amo ricordare quanto mi sia stato donato, come sia stato importante essere lì in quel momento, importante per l’altro ma anche per me. Scappare non aiuta nessuno, prima o poi, le cose tornano.


La tua esperienza come scrittore è profondamente focalizzata sulla promozione di un modello di assistenza sanitaria che ha nel rispetto dell’essere umano il suo cardine. Quest’ottica è la stessa cui si ispirano le attività di Medicina Narrativa e, non a caso, rappresenta anche il principio attorno al quale i moderni indirizzi della formazione infermieristica si stanno muovendo, quello di un nursing narrativo. Sei d’accordo con questa evoluzione che vede un ruolo centrale per la narrazione nella professione infermieristica di domani? 

M: il mio auspicio è che ciò possa avvenire, in realtà sarebbe un po’ come riprendersi il nostro ambito.   
Ogni tipo di relazione che s’instaura con l’altro deve prendere in considerazione anche l’aspetto umano. Se poi parliamo di relazioni di aiuto, di accoglienza di un bisogno/necessità, il fattore umanità è compreso in tutte. 
Vorrei dire ai miei giovani colleghi, a quelli che si affacceranno a questa professione avendo "scelto" di essere degli infermieri: per essere professionali bisogna avere tutte le competenze necessarie al fine di apportare sempre il meglio delle proprie capacità, avere a disposizione le risorse necessarie per poter raggiungere il risultato e gli strumenti per valutare che quanto erogato ha raggiunto le aspettative. 
Non dimenticate che quel sorriso, quel grazie non detto, quella mano che a fatica si tende per potervi salutare sarà tutto quello che vi resterà dell’intera giornata di lavoro. 
Raccontare quante emozioni si vivono nel proprio ambito lavorativo è un privilegio di pochi, non perdiamo il treno. 

La narrazione è considerata e promossa da noi di Fuzzy Project come un vero e proprio strumento terapeutico che può affiancare qualsiasi percorso assistenziale di cui il cittadino/paziente ha necessità. In Italia, si stenta a renderla parte dell’iter di cura perché è considerata come un percorso indipendente se non alternativo. A fronte della tua esperienza, qual è l’idea che ti sei fatto in merito al prossimo futuro?

M: Le cose diverse sono sempre difficili da digerire, se poi ci associ il fatto che non puoi quantificarle e, di conseguenza, monetizzarle allora si che la strada è tutta in salita.
Sul diario infermieristico del signor X scriverei: “oggi ho passato mezzora ad ascoltare le storie del paziente”. 
Ecco, provando ad immaginarlo, cosa penserebbero i colleghi “con tutto quello che c’era da fare”, i medici “l’ho sempre detto che non ha voglia di fare niente”, la cartella in tribunale per un ricorso penale reciterebbe, nel migliore dei casi: “ma lei è sicuro di essere un infermiere?”.
Credo che raccontare sia una cosa positiva, ma presume che ci sia qualcuno che parli e almeno un’altra persona disposta ad ascoltare; noi italiani siamo un popolo fantastico, ma le novità ci spaventano. Pur essendo dei grandi innovatori, quando si tratta di cambiare il quotidiano abbiamo sempre qualche remora. 
L’augurio è che la narrazione divenga un processo integrante del percorso assistenziale di un paziente, processo di consapevolezza e non di default perché la solita anima di buona volontà si è seduta ad ascoltare l’altro.

Cercando di rendere ancora più concreta l’analisi dello scenario, aspetti come il racconto di sé e la capacità di ascoltarsi tra curante e assistito, non dovrebbero essere scenari su cui lavorare in modo concreto?

M: Sicuramente sono aspetti da prendere in considerazione perché aiuterebbero moltissimo i rapporti interpersonali. L’introspezione è una dimensione nella quale non tutti si trovano a proprio agio; spesso ti mette di fronte un aspetto della tua personalità che non conosci e forse non vuoi nemmeno riconoscere, magari un punto debole, una paura recondita. 
È, però, il punto da cui partire. Prima di ascoltare e conoscere l’altro devo conoscere le mie capacità e fino a che punto sono in grado di arrivare. Giocare all’ascolto è anche questo, la prima persona da ascoltare è proprio quella che si riflette nello specchio tutte le mattine, quello specchio che non mente ma che spesso si ferma solo alla superficie.
All’apparenza dobbiamo preferire la sostanza, capire chi c’è dietro quegli occhi che chiedono aiuto, che hanno bisogno di assistenza, che necessitano di cure. 
Il racconto è un bisogno dell’uomo, cominciamo con ascoltare le favole poi impariamo raccontarle, le modalità di ascolto e racconto sono tantissime, cambiano e si evolvono continuamente. Alla fine, però, c’è un tempo per ascoltare e uno per raccontare, bisogna solo imparare a riconoscerlo.

Andrea ti ringrazio per l’opportunità che mi hai dato di divagare sull’infermieristica e sull’aspetto che ritengo più affascinante, la dimensione umana. Spero che il tuo progetto possa contagiare tanti menti sfocate.


A proposito di racconto, girovagando in rete ho trovato questa bellissima citazione:

“C’è chi dice che il racconto sia una delle forme letterarie più difficili,e io mi sono sempre chiesta il perché di questa convinzione, visto che a me pare uno dei modi più spontanei e fondamentali dell’espressione umana. 

Dopotutto, uno comincia ad ascoltare e a raccontare storie sin da piccolo, senza trovarci nulla di particolarmente complicato. Ho il sospetto che tanti di voi raccontino storie da una vita, eppure eccovi qui seduti, tutti desiderosi di sapere come si fa.”
                                                                                                                                                           Flannery O’Connor

Sicuramente ne sa più di me. 
Quindi potremo supporre che le cose stiano effettivamente così, almeno per il momento. 
Questo però, non esclude il fatto che debbano essere verificate per avere una certezza valida e reale. 
Ammesso e non concesso.


Caro Mauro, sono io che ringrazio te per il regalo che mi hai fatto e che condivido in questo momento con il pubblico del blog. Non lo ritengo, infatti, un divagare, ma lo vedo più come uno spaccato prezioso di un mondo la cui complessità ha bisogno di essere conosciuta da tutti. 

Senza arrivare a parlare di menti sfocate (perché, come ho detto, il problema sta più a monte), l’utilizzo di più punti di vista differenti è la risorsa più potente.

A presto e un arrivederci a tutti,

Andrea