Più volte, nei miei post
precedenti ho parlato del mio essere discontinuo nello scrivere su questo Blog.
Da una parte, sono profondamente convinto che questo comportamento sia una
rappresentazione fedele di come sono fatto, dall’altra, credo che un blog
concepito come spazio dove esprimere il proprio pensiero e presentare ciò di
cui ci si occupa con passione e dedizione, richieda una maggiore cura.
Circa un anno fa il lento cammino
in questo senso è cominciato e in questo post ho cercato di gettare, dentro di me, le fondamenta per qualcosa di diverso,
le sementi per un cammino più determinato nel cercare di rendere questa pagina
un qualcosa che parli sia di me sia
di ciò in cui credo: lo strumento
narrativo e le sue molteplici applicazioni (comunicazione, salute, racconto del territorio, etc.).
Guardandomi indietro e lanciando uno sguardo all’archivio
del blog che mi restituisce implacabilmente il verdetto, credo che una media di
quasi un articolo al mese non sia male. Ora, con l’arrivo del 2015, mi sento
ancora più determinato per tuffarmi in un’annata fatta di spunti e pensieri da
lasciarvi.
A darmi una mano ci sarà
sicuramente la scelta di seguire “Curare e Narrare. Medical Humanities eNarrazione in Sanità”, un ciclo di dodici
conferenze che si snoderà da gennaio a ottobre, organizzato dall’ASL di Biella
con il sostegno della Fondazione Edo ed Elvo Tempia Valenta O.N.L.U.S. e il
patrocinio sia dell’Ordine dei Medici di Biella sia di IPASVI (organo di
rappresentanza degli infermieri).
Nel riferirvi del primo
appuntamento, che ha avuto luogo lunedì 12 Gennaio, sono in ritardo come al
solito…una cosa che non vorrei ammettere poiché oggi pomeriggio seguirò il
secondo incontro! È però successo e, d’ora in avanti, prometto di essere più costante
e attento!
Il titolo della prima conferenza
era Medical
Humanities e Umanizzazione: Sinonimi o “falsi amici”? e il relatore era
una persona il cui nome l'ho sentito pronunciare sin dal primo corso di
formazione in Medicina Narrativa: il Prof. Sandro
Spinsanti, psicologo, teologo e bioeticista. Presidente dell’Istituto Giano
da lui fondato a Roma, ha ricoperto incarichi importanti cercando sempre di coniugare
il sapere umanistico con quello scientifico.
Dal suo brillante intervento è
emerso come sia difficile sia definire sia portare avanti l’umanizzazione nel
campo medico. Il terreno su cui si muovono le persone che credono profondamente
in questa cosa, è, in realtà, scivoloso dal punto di vista sia pratico sia linguistico.
Non si tratta solo di avere a che
fare con le situazioni che la realtà ci mette quotidianamente davanti quando di
mezzo c’è la salute, ma si tratta anche dei problemi che s’incontrano nello
spiegare, senza rischiare messaggi parzialmente scorretti la scelta fatta nell’interpretare
il proprio agire quotidiano: agire affinché il miglioramento della relazione
medico-paziente contribuisca sempre di più a rendere le cure più efficaci.
Un primo livello di difficoltà ha
origine nell’abbondante uso di termini anglosassoni nel vocabolario “professionale”
e la tendenza a usarlo come protezione quando si parla con il paziente, mentre
si dovrebbe cercare il dialogo semplice.
In più, se si tiene conto dei
fraintendimenti che si possono generare cercando di tradurre, in italiano,
espressioni in inglese (lingua in cui la comunicazione di concetti diversi non
avviene attraverso distinte costruzioni della frase, ma con le parole stesse che
conferiscono differente senso alla frase avendo diversi significati) complicando
di molto la faccenda alla base.
Molti di voi, infatti, non ne
saranno al corrente, ma uno degli errori più diffusi e importanti riguarda la
traduzione dell’espressione Evidence
Based Medicine in medicina basata “sulle evidenze” quando invece è più
esatto dire “sulle prove”.
Il
secondo livello, invece, ci riporta a uno scenario potenzialmente comune a
tutti: l’eventualità di trovarsi nelle mani di un medico per nulla affabile, ma
in grado di salvarci la vita (ipotesi A) oppure viceversa (ipotesi B). Spinsanti
non vuole ignorare, con questo esempio, il merito della questione, bensì
sottolineare che le risposte alla domanda:
“Quale situazione scegliereste? A
oppure B?”
A. avere buoni medici
B. avere medici buoni
siano solo apparentemente uguali.
La lingua italiana, è in grado identificare le due situazioni che avremmo di
fronte con le stesse parole, invertendo semplicemente la posizione del termine “buoni”
in modo che abbia una funzione attributiva nel primo caso e predicativa nel
secondo.
I due esempi fatti vogliono essere
uno stimolo alla riflessione circa la necessità di evitare una volta per tutte un
modo di esprimersi ambiguo ed evitare che si generino delle incomprensioni in
qualunque fase della relazione tra cittadino e le varie realtà deputate alla
sua assistenza.
Nessuno, però, deve sentirsi
escluso dal concorrere a dare il proprio contributo nonostante la quotidianità
ci metta di fronte a casi che evidenziano quanto sia complicato.
Prendendo in esame la posizione dell’operatore
sanitario, bisogna obiettivamente riconoscere i numerosi ostacoli che ha da
superare per portare avanti il proprio lavoro. Si trova, volente o nolente, investito
di ruoli e compiti che non gli sono consoni e per cui non ha alcuna
preparazione (spesso si tratta di responsabilità amministrative o obiettivi
volti a garantire l’efficienza della struttura per cui opera), aspetto che lo
porta a perdere di vista lo scopo primario del suo agire: occuparsi dell’altro.
Il rischio molto alto per il
clinico, l’infermiere o qualsiasi altro professionista del settore, è di non
riuscire ad avere più una risposta alla domanda “ma chi me lo fa fare?”, in cui
è racchiuso quel qualcosa che ognuno ha dentro di sé e lo fa muovere senza
cadere vittima della routine e di automatismi deleteri.
Nel momento in cui ci si accorge
o si è messi davanti a questo vuoto motivazionale, è opportuno che si sia
affiancati per ritrovare quella che, nell’accezione più filantropica dell’umanizzazione
della medicina, è la nostra essenza.
In
questo tipo di situazioni, aiutano molto le progettualità di Medicina Narrativa
le quali permettono un lavoro molto profondo d’introspezione. Una volta che il
professionista ha occasione di condividere il suo punto di vista di uomo che
vive la professione medica sulla propria pelle:
· ne avrà lui
stesso un beneficio notevole;
· potranno nascere
spunti per agire in modo costruttivo a livello dell’ambiente lavorativo;
e il servizio offerto ai pazienti
tornerà a essere efficace e focalizzato su ogni singolo utente come auspicato
dai pilastri di una delle più importanti riforme del Sistema sanitario
Nazionale Italiano nel 1992: “il malato è pur sempre un cittadino a prescindere
dallo stato della sua salute e, per questa ragione, deve essere soddisfatto”.
Nel momento in cui la dimensione
umana del professionista medico riesce a essere preservata anche quella dell’assistito
ne ha dei benefici: il clinico sarà in grado di applicare meglio il suo sapere
scientifico isolando, quando deve, l’attenzione alla persona umana, ma senza
mancare di rispetto a quella che è la componente biografica della malattia (come
il paziente riferisce i sintomi e l’influenza complessiva del problema di
salute sulla sua personale qualità di vita).
La visione delle medical
humanities comprende l’esercizio di tutte quelle azioni volte a distinguere e a
muoversi attraverso distinti orizzonti: FISICO (il corpo), FILOSOFICO (il
pensiero) che può essere poi differenziato nella componente morale e in quella
spirituale. Applicare il proprio sapere per curare le disfunzioni a livello
biologico, senza divenire né un mero aggiustatore né condizionabile da pre-giudizi
di ordine etico permetterà un esercizio di una medicina che è “la più umana delle
scienze, la più empirica delle arti e la più scientifica delle humanities”
(Edmund Pellegrino).
Sperando che questo post abbia aperto
nuove prospettive come ha fatto con me, non mi resta che lasciarvi con un
auspicio ad avervi di nuovo come lettori per i prossimi spunti di riflessione!
Andrea
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