Ciao a tutti,
come promesso, dedico
il post all’appuntamento del ciclo di conferenze “Curare e Narrare” del 26
gennaio scorso, forte della convinzione che va maturando ogni evento che seguo:
ho l’occasione di conoscere relatori e punti di vista sempre molto utili a far
crescere la mia personale conoscenza delle medical humanities e, ogni volta, la convinzione secondo
cui, oggi, è importante mantenere vivo il lato narrativo della medicina si fa
sempre più forte.
Durante il primo
evento, è stato illustrato come il delinearsi di scenari sereni oppure caotici durante
la gestione dei percorsi assistenziali, l’importanza che i dottori conservino motivazioni
professionali profonde e la presenza o meno di apertura al dialogo e
all’ascolto da parte di tutti, influenzino notevolmente la qualità della presa
in carico del paziente.
La riflessione
condotta dal Prof. Spinsanti ha permesso di concludere come un ritorno alla
dimensione originaria dell'arte medica e alla piena coscienza della propria
autonomia decisionale da parte del clinico siano indirizzi importanti con cui
l’atto medico può recuperare dignità ed efficacia.
A questo concetto
perfettamente si agganciano le parole introduttive al secondo evento
pronunciate dal Dott. Rivadossi secondo il quale il senso più profondo della
medicina, al di là dei mezzi pratici e delle tecnologie di cui dispone, sia
quello di alleviare il senso di ansia e confusione del paziente.
Nel momento in
cui si ha un approccio umanitario alla malattia, si aiuta l’assistito a
coltivare dentro di sé il desiderio e la capacità di resistere tollerando la
sofferenza ed essendo consapevole di ciò che ha davanti.
Davanti ad un
così nobile proposito, credo che a molti di voi (indipendentemente dal fatto che
siate o no medici) sorga spontanea la domanda “come è possibile riuscire a
raggiungere l’obiettivo appena descritto?”
Per capire meglio
come affrontare queste situazioni è opportuno fare un passo indietro e cercare
di capire quali siano le ragioni antropologiche e, quindi, di evoluzione dal
punto di vista culturale che sono alla base della visione che i popoli hanno
della malattia e di come deve essere affrontata.
Il titolo “La
medicina come sistema culturale: saperi, pratiche, narrazioni” dà già
un’idea di come esistano vari livelli di analisi dell'atto medico che
l’antropologia medica, campo di studio in cui è specializzata la relatrice Lucia Portis, prende in considerazione
per spiegare la stretta relazione tra i patrimoni culturali le tipologie di
medicina che praticano.
Tutto ciò che ha
a che fare con le cure, ha una relazione con il tessuto sociale perché è da lì
che, in modo empirico, si è da sempre provato a interpretare ciò che si ha
davanti dandogli un significato. Questo insieme di speculazioni e conoscenze
confluisce in quello che è il concetto di sistema
medico che ogni società sia del passato sia del presente ha.
Volendone dar una
definizione più astratta e comprensibile, si tratta di tutte le azioni volte a prevenire,
individuare e fronteggiare le malattie, ma siamo pur sempre davanti all’evoluzione
che i saperi e le pratiche che hanno permesso all’uomo di affrontare e spiegare
l’oscillazione del corpo tra due stati, quello di Salute e quello di Malattia, hanno avuto in ogni società.
Prendendo ad
esempio il contesto in cui noi viviamo, il mondo occidentale, la visione della
medicina che lo caratterizza è appunto quella occidentale, detta anche biomedicina.
Essa ha profondi legami con gli scenari in cui il suo processo di sviluppo ha
avuto luogo evidenziando, al contrario di tutti gli altri sistemi medici che
etichetta, in modo elitario, “alternativi”, di essersi profondamente
allontanata da una visione naturale e armonica di corpo, salute e malattia.
La prima
conseguenza è che il primo elemento viene visto come un meccanismo complesso
che necessita di numerose specialità per essere compreso, il secondo come un
qualcosa di poco chiaro in quanto scontato, e il terzo alla stregua di un
malfunzionamento da riparare a tutti i costi.
Il concetto di
salute è da sempre poco definito in quanto l’uomo non è portato, purtroppo, a
curarsene sino a quando il presentarsi di una malattia lo mette di fronte al
suo venire meno. Quando cerca, comunque, di dargli una connotazione, tende a
rifugiarsi nella visione più leggera e ottimistica di benessere e nel suo
diminuire con l’avanzare dell’età.
La comparsa di una
patologia, dall’altra parte, diventa teatro di varie rappresentazioni come dice
lo studioso Byron Good sostenendo che la malattia viene dall’uomo vista come un
“oggetto estetico”. Il suo arrivo, è un punto di rottura forte in quanto provoca
una discontinuità nella nostra esistenza ed è per questo motivo che si fa
sempre più fatica a immaginare uno scenario come quello della biomedicina
secondo cui la mente umana è in grado di isolare ciò che accade al corpo senza
avere la tendenza a darvi una lettura soggettiva.
In noi, appunto, il
desiderio di conoscere la causa del proprio malessere è tanto forte e non
possiamo fare meno di metterci alla ricerca di una diagnosi perché essa non è
altro che il modo in cui un essere umano insegue la risposta che ci convince di
più, qualcosa che appartiene totalmente alla sfera del soggettivo.
Ognuno di noi ha
delle convinzioni frutto del suo percorso di crescita e formazione come
individuo che lo portano a riporre fiducia in alcuni ambiti o forme di pensiero
dove pensa di poter trovare una risposta terapeutica. Le tre principali
sfaccettature del comportamento che il singolo ha nell’affrontare il proprio
problema di salute viene definito dall’antropologia medica arena e può essere:
· familiare quando rimango in un ambito circoscritto come il
mio nucleo familiare e la cerchia di amici stretti. Spesso, quando si cerca di
capire ciò che ci sta accadendo troviamo un rifugio nella pratica narrativa, la
quale permette all’interpretazione personale di ciò che stiamo sperimentando di
affiorare e rendere la presa in carico della patologia un fatto che non è più
privato, bensì collettivo. Sempre secondo Byron Good, raccontare la malattia
permette alla persona di ricollocarsi rispetto a ciò che sta vivendo per
poterlo comprendere a fondo;
· popolare nel caso in cui coinvolga ambiti più allargati
del tessuto sociale in cui vivo come custodi di saperi antichi o esponenti del
mondo spirituale. Nel primo caso, ci si affida a conoscenze che vengono
trasmesse oralmente, la prossimità tra terapeuta e malato è alta e l’uso di
rimedi s’intreccia con rituali e simboli che aiutano a rendere credibile il
trattamento che si riceve. Nel secondo ambito, invece, la risposta alla
sofferenza viene cercata nel soprannaturale, come spesso è accaduto nella
storia, per cui la s’interpreta come la punizione per una colpa;
· professionale nel momento in cui cerco un interlocutore
all’interno della medicina ufficiale.
Un’altra
dimostrazione delle difficoltà sempre maggiori che si incontrano nella
dialettica tra curante e assistito emergono quando si valutano le frequenti
problematiche nell’offrire un’assistenza medica di qualità a causa della contaminazione
culturale che subisce la società moderna. La diversa provenienza geografica è sempre
più spesso sinonimo di differenze nei modelli esplicativi tra pazienti e medici
con tutte le conseguenze del caso nel trovare un punto d’incontro e
comunicazione che permettono di chiarire il quadro clinico.
Questo scenario
sarebbe molto più facile da affrontare nel momento in cui la biomedicina non
avesse un atteggiamento di diffidenza sia verso le "arene" che
compongono la società dove essa stessa si è sviluppata (mi riferisco a saperi
antichi come la floriterapia), oppure nei confronti di medicine che provengono
da culture molto distanti come quella cinese, ad esempio.
Le conseguenze pratiche sono almeno due (almeno
in occidente, perché in oriente accade spesso il contrario):
· l’esistenza di una sorta di pluralismo terapeutico sotterraneo per
cui le persone finiscono per rivolgersi ad altre medicine senza che siano le
stesse a essersi confrontate prima per rendersi complementari;
· un’incapacità a vedere nella conoscenza di
altri sistemi medici uno strumento importante per avere delle basi di dialogo e
comprendere la cultura di una persona che ha pur sempre bisogno di cure mediche
come chiunque di noi.
Ecco perché, a
fronte di tutti gli aspetti di ordine storico e antropologico che sono stati
affrontati, la sintesi estrema della giornata è che il percorso di diagnosi
debba tornare a essere un processo narrativo e di accoglienza.
Non a caso la stessa
Dott. sa Portis ha rivolto alla platea la seguente domanda che ha incontrato un
silenzio pieno di amara consapevolezza: “quanti di voi hanno mai chiesto a un
paziente se avesse una sua idea di malattia e se avesse voglia di esprimerla?”
Appuntamento al prossimo reportage!
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