lunedì 9 febbraio 2015

Curare e Narrare atto secondo: alla scoperta del lato profondo della medicina


Ciao a tutti,

come promesso, dedico il post all’appuntamento del ciclo di conferenze “Curare e Narrare” del 26 gennaio scorso, forte della convinzione che va maturando ogni evento che seguo: ho l’occasione di conoscere relatori e punti di vista sempre molto utili a far crescere la mia personale conoscenza delle medical humanities e, ogni volta, la convinzione secondo cui, oggi, è importante mantenere vivo il lato narrativo della medicina si fa sempre più forte.  

Durante il primo evento, è stato illustrato come il delinearsi di scenari sereni oppure caotici durante la gestione dei percorsi assistenziali, l’importanza che i dottori conservino motivazioni professionali profonde e la presenza o meno di apertura al dialogo e all’ascolto da parte di tutti, influenzino notevolmente la qualità della presa in carico del paziente.

La riflessione condotta dal Prof. Spinsanti ha permesso di concludere come un ritorno alla dimensione originaria dell'arte medica e alla piena coscienza della propria autonomia decisionale da parte del clinico siano indirizzi importanti con cui l’atto medico può recuperare dignità ed efficacia.

A questo concetto perfettamente si agganciano le parole introduttive al secondo evento pronunciate dal Dott. Rivadossi secondo il quale il senso più profondo della medicina, al di là dei mezzi pratici e delle tecnologie di cui dispone, sia quello di alleviare il senso di ansia e confusione del paziente.

Nel momento in cui si ha un approccio umanitario alla malattia, si aiuta l’assistito a coltivare dentro di sé il desiderio e la capacità di resistere tollerando la sofferenza ed essendo consapevole di ciò che ha davanti.

Davanti ad un così nobile proposito, credo che a molti di voi (indipendentemente dal fatto che siate o no medici) sorga spontanea la domanda “come è possibile riuscire a raggiungere l’obiettivo appena descritto?”

Per capire meglio come affrontare queste situazioni è opportuno fare un passo indietro e cercare di capire quali siano le ragioni antropologiche e, quindi, di evoluzione dal punto di vista culturale che sono alla base della visione che i popoli hanno della malattia e di come deve essere affrontata.

Il titolo “La medicina come sistema culturale: saperi, pratiche, narrazioni” dà già un’idea di come esistano vari livelli di analisi dell'atto medico che l’antropologia medica, campo di studio in cui è specializzata la relatrice Lucia Portis, prende in considerazione per spiegare la stretta relazione tra i patrimoni culturali le tipologie di medicina che praticano.

Tutto ciò che ha a che fare con le cure, ha una relazione con il tessuto sociale perché è da lì che, in modo empirico, si è da sempre provato a interpretare ciò che si ha davanti dandogli un significato. Questo insieme di speculazioni e conoscenze confluisce in quello che è il concetto di sistema medico che ogni società sia del passato sia del presente ha.

Volendone dar una definizione più astratta e comprensibile, si tratta di tutte le azioni volte a prevenire, individuare e fronteggiare le malattie, ma siamo pur sempre davanti all’evoluzione che i saperi e le pratiche che hanno permesso all’uomo di affrontare e spiegare l’oscillazione del corpo tra due stati, quello di Salute e quello di Malattia, hanno avuto in ogni società.

Prendendo ad esempio il contesto in cui noi viviamo, il mondo occidentale, la visione della medicina che lo caratterizza è appunto quella occidentale, detta anche biomedicina. Essa ha profondi legami con gli scenari in cui il suo processo di sviluppo ha avuto luogo evidenziando, al contrario di tutti gli altri sistemi medici che etichetta, in modo elitario, “alternativi”, di essersi profondamente allontanata da una visione naturale e armonica di corpo, salute e malattia.

La prima conseguenza è che il primo elemento viene visto come un meccanismo complesso che necessita di numerose specialità per essere compreso, il secondo come un qualcosa di poco chiaro in quanto scontato, e il terzo alla stregua di un malfunzionamento da riparare a tutti i costi.

Il concetto di salute è da sempre poco definito in quanto l’uomo non è portato, purtroppo, a curarsene sino a quando il presentarsi di una malattia lo mette di fronte al suo venire meno. Quando cerca, comunque, di dargli una connotazione, tende a rifugiarsi nella visione più leggera e ottimistica di benessere e nel suo diminuire con l’avanzare dell’età.

La comparsa di una patologia, dall’altra parte, diventa teatro di varie rappresentazioni come dice lo studioso Byron Good sostenendo che la malattia viene dall’uomo vista come un “oggetto estetico”. Il suo arrivo, è un punto di rottura forte in quanto provoca una discontinuità nella nostra esistenza ed è per questo motivo che si fa sempre più fatica a immaginare uno scenario come quello della biomedicina secondo cui la mente umana è in grado di isolare ciò che accade al corpo senza avere la tendenza a darvi una lettura soggettiva.

In noi, appunto, il desiderio di conoscere la causa del proprio malessere è tanto forte e non possiamo fare meno di metterci alla ricerca di una diagnosi perché essa non è altro che il modo in cui un essere umano insegue la risposta che ci convince di più, qualcosa che appartiene totalmente alla sfera del soggettivo.

Ognuno di noi ha delle convinzioni frutto del suo percorso di crescita e formazione come individuo che lo portano a riporre fiducia in alcuni ambiti o forme di pensiero dove pensa di poter trovare una risposta terapeutica. Le tre principali sfaccettature del comportamento che il singolo ha nell’affrontare il proprio problema di salute viene definito dall’antropologia medica arena e può essere:
·  familiare quando rimango in un ambito circoscritto come il mio nucleo familiare e la cerchia di amici stretti. Spesso, quando si cerca di capire ciò che ci sta accadendo troviamo un rifugio nella pratica narrativa, la quale permette all’interpretazione personale di ciò che stiamo sperimentando di affiorare e rendere la presa in carico della patologia un fatto che non è più privato, bensì collettivo. Sempre secondo Byron Good, raccontare la malattia permette alla persona di ricollocarsi rispetto a ciò che sta vivendo per poterlo comprendere a fondo;
·  popolare nel caso in cui coinvolga ambiti più allargati del tessuto sociale in cui vivo come custodi di saperi antichi o esponenti del mondo spirituale. Nel primo caso, ci si affida a conoscenze che vengono trasmesse oralmente, la prossimità tra terapeuta e malato è alta e l’uso di rimedi s’intreccia con rituali e simboli che aiutano a rendere credibile il trattamento che si riceve. Nel secondo ambito, invece, la risposta alla sofferenza viene cercata nel soprannaturale, come spesso è accaduto nella storia, per cui la s’interpreta come la punizione per una colpa;
·  professionale nel momento in cui cerco un interlocutore all’interno della medicina ufficiale.

Un’altra dimostrazione delle difficoltà sempre maggiori che si incontrano nella dialettica tra curante e assistito emergono quando si valutano le frequenti problematiche nell’offrire un’assistenza medica di qualità a causa della contaminazione culturale che subisce la società moderna. La diversa provenienza geografica è sempre più spesso sinonimo di differenze nei modelli esplicativi tra pazienti e medici con tutte le conseguenze del caso nel trovare un punto d’incontro e comunicazione che permettono di chiarire il quadro clinico.

Questo scenario sarebbe molto più facile da affrontare nel momento in cui la biomedicina non avesse un atteggiamento di diffidenza sia verso le "arene" che compongono la società dove essa stessa si è sviluppata (mi riferisco a saperi antichi come la floriterapia), oppure nei confronti di medicine che provengono da culture molto distanti come quella cinese, ad esempio.

Le conseguenze pratiche sono almeno due (almeno in occidente, perché in oriente accade spesso il contrario):
·  l’esistenza di una sorta di pluralismo terapeutico sotterraneo per cui le persone finiscono per rivolgersi ad altre medicine senza che siano le stesse a essersi confrontate prima per rendersi complementari;
·  un’incapacità a vedere nella conoscenza di altri sistemi medici uno strumento importante per avere delle basi di dialogo e comprendere la cultura di una persona che ha pur sempre bisogno di cure mediche come chiunque di noi.

Ecco perché, a fronte di tutti gli aspetti di ordine storico e antropologico che sono stati affrontati, la sintesi estrema della giornata è che il percorso di diagnosi debba tornare a essere un processo narrativo e di accoglienza. 

Non a caso la stessa Dott. sa Portis ha rivolto alla platea la seguente domanda che ha incontrato un silenzio pieno di amara consapevolezza: “quanti di voi hanno mai chiesto a un paziente se avesse una sua idea di malattia e se avesse voglia di esprimerla?

Appuntamento al prossimo reportage!


lunedì 26 gennaio 2015

BREVE RIFLESSIONE E POI…VIA CON UN NUOVO VIAGGIO RICCO DI SPUNTI!

Più volte, nei miei post precedenti ho parlato del mio essere discontinuo nello scrivere su questo Blog. Da una parte, sono profondamente convinto che questo comportamento sia una rappresentazione fedele di come sono fatto, dall’altra, credo che un blog concepito come spazio dove esprimere il proprio pensiero e presentare ciò di cui ci si occupa con passione e dedizione, richieda una maggiore cura.

Circa un anno fa il lento cammino in questo senso è cominciato e in questo post ho cercato di gettare, dentro di me, le fondamenta per qualcosa di diverso, le sementi per un cammino più determinato nel cercare di rendere questa pagina un qualcosa che parli sia di me sia di ciò in cui credo: lo strumento narrativo e le sue molteplici applicazioni (comunicazione, salute, racconto del territorio, etc.).

Guardandomi indietro e lanciando uno sguardo all’archivio del blog che mi restituisce implacabilmente il verdetto, credo che una media di quasi un articolo al mese non sia male. Ora, con l’arrivo del 2015, mi sento ancora più determinato per tuffarmi in un’annata fatta di spunti e pensieri da lasciarvi.



A darmi una mano ci sarà sicuramente la scelta di seguire “Curare e Narrare. Medical Humanities eNarrazione in Sanità”, un ciclo di dodici conferenze che si snoderà da gennaio a ottobre, organizzato dall’ASL di Biella con il sostegno della Fondazione Edo ed Elvo Tempia Valenta O.N.L.U.S. e il patrocinio sia dell’Ordine dei Medici di Biella sia di IPASVI (organo di rappresentanza degli infermieri).

Nel riferirvi del primo appuntamento, che ha avuto luogo lunedì 12 Gennaio, sono in ritardo come al solito…una cosa che non vorrei ammettere poiché oggi pomeriggio seguirò il secondo incontro! È però successo e, d’ora in avanti, prometto di essere più costante e attento!

Il titolo della prima conferenza era Medical Humanities e Umanizzazione: Sinonimi o “falsi amici”? e il relatore era una persona il cui nome l'ho sentito pronunciare sin dal primo corso di formazione in Medicina Narrativa: il Prof. Sandro Spinsanti, psicologo, teologo e bioeticista. Presidente dell’Istituto Giano da lui fondato a Roma, ha ricoperto incarichi importanti cercando sempre di coniugare il sapere umanistico con quello scientifico.

Dal suo brillante intervento è emerso come sia difficile sia definire sia portare avanti l’umanizzazione nel campo medico. Il terreno su cui si muovono le persone che credono profondamente in questa cosa, è, in realtà, scivoloso dal punto di vista sia pratico sia linguistico.

Non si tratta solo di avere a che fare con le situazioni che la realtà ci mette quotidianamente davanti quando di mezzo c’è la salute, ma si tratta anche dei problemi che s’incontrano nello spiegare, senza rischiare messaggi parzialmente scorretti la scelta fatta nell’interpretare il proprio agire quotidiano: agire affinché il miglioramento della relazione medico-paziente contribuisca sempre di più a rendere le cure più efficaci.  

Un primo livello di difficoltà ha origine nell’abbondante uso di termini anglosassoni nel vocabolario “professionale” e la tendenza a usarlo come protezione quando si parla con il paziente, mentre si dovrebbe cercare il dialogo semplice.
In più, se si tiene conto dei fraintendimenti che si possono generare cercando di tradurre, in italiano, espressioni in inglese (lingua in cui la comunicazione di concetti diversi non avviene attraverso distinte costruzioni della frase, ma con le parole stesse che conferiscono differente senso alla frase avendo diversi significati) complicando di molto la faccenda alla base.
Molti di voi, infatti, non ne saranno al corrente, ma uno degli errori più diffusi e importanti riguarda la traduzione dell’espressione Evidence Based Medicine in medicina basata “sulle evidenze” quando invece è più esatto dire “sulle prove”.

Il secondo livello, invece, ci riporta a uno scenario potenzialmente comune a tutti: l’eventualità di trovarsi nelle mani di un medico per nulla affabile, ma in grado di salvarci la vita (ipotesi A) oppure viceversa (ipotesi B). Spinsanti non vuole ignorare, con questo esempio, il merito della questione, bensì sottolineare che le risposte alla domanda: 
“Quale situazione scegliereste? A oppure B?”
A. avere buoni medici
B. avere medici buoni
siano solo apparentemente uguali. La lingua italiana, è in grado identificare le due situazioni che avremmo di fronte con le stesse parole, invertendo semplicemente la posizione del termine “buoni” in modo che abbia una funzione attributiva nel primo caso e predicativa nel secondo.

I due esempi fatti vogliono essere uno stimolo alla riflessione circa la necessità di evitare una volta per tutte un modo di esprimersi ambiguo ed evitare che si generino delle incomprensioni in qualunque fase della relazione tra cittadino e le varie realtà deputate alla sua assistenza.

Nessuno, però, deve sentirsi escluso dal concorrere a dare il proprio contributo nonostante la quotidianità ci metta di fronte a casi che evidenziano quanto sia complicato.

Prendendo in esame la posizione dell’operatore sanitario, bisogna obiettivamente riconoscere i numerosi ostacoli che ha da superare per portare avanti il proprio lavoro. Si trova, volente o nolente, investito di ruoli e compiti che non gli sono consoni e per cui non ha alcuna preparazione (spesso si tratta di responsabilità amministrative o obiettivi volti a garantire l’efficienza della struttura per cui opera), aspetto che lo porta a perdere di vista lo scopo primario del suo agire: occuparsi dell’altro.

Il rischio molto alto per il clinico, l’infermiere o qualsiasi altro professionista del settore, è di non riuscire ad avere più una risposta alla domanda “ma chi me lo fa fare?”, in cui è racchiuso quel qualcosa che ognuno ha dentro di sé e lo fa muovere senza cadere vittima della routine e di automatismi deleteri.

Nel momento in cui ci si accorge o si è messi davanti a questo vuoto motivazionale, è opportuno che si sia affiancati per ritrovare quella che, nell’accezione più filantropica dell’umanizzazione della medicina, è la nostra essenza.

In questo tipo di situazioni, aiutano molto le progettualità di Medicina Narrativa le quali permettono un lavoro molto profondo d’introspezione. Una volta che il professionista ha occasione di condividere il suo punto di vista di uomo che vive la professione medica sulla propria pelle:
· ne avrà lui stesso un beneficio notevole;
· potranno nascere spunti per agire in modo costruttivo a livello dell’ambiente lavorativo;
e il servizio offerto ai pazienti tornerà a essere efficace e focalizzato su ogni singolo utente come auspicato dai pilastri di una delle più importanti riforme del Sistema sanitario Nazionale Italiano nel 1992: “il malato è pur sempre un cittadino a prescindere dallo stato della sua salute e, per questa ragione, deve essere soddisfatto”.

Nel momento in cui la dimensione umana del professionista medico riesce a essere preservata anche quella dell’assistito ne ha dei benefici: il clinico sarà in grado di applicare meglio il suo sapere scientifico isolando, quando deve, l’attenzione alla persona umana, ma senza mancare di rispetto a quella che è la componente biografica della malattia (come il paziente riferisce i sintomi e l’influenza complessiva del problema di salute sulla sua personale qualità di vita).

La visione delle medical humanities comprende l’esercizio di tutte quelle azioni volte a distinguere e a muoversi attraverso distinti orizzonti: FISICO (il corpo), FILOSOFICO (il pensiero) che può essere poi differenziato nella componente morale e in quella spirituale. Applicare il proprio sapere per curare le disfunzioni a livello biologico, senza divenire né un mero aggiustatore né condizionabile da pre-giudizi di ordine etico permetterà un esercizio di una medicina che è “la più umana delle scienze, la più empirica delle arti e la più scientifica delle humanities” (Edmund Pellegrino).

Sperando che questo post abbia aperto nuove prospettive come ha fatto con me, non mi resta che lasciarvi con un auspicio ad avervi di nuovo come lettori per i prossimi spunti di riflessione!

Andrea


mercoledì 10 dicembre 2014

SCRIVERE: narrazione ma anche sapere quando è il momento di dare un senso alle cose


Ciao a tutti,

ammetto di non possedere il sacro fuoco della cronaca tipico del giornalista, né la reattività di chi è sempre sul pezzo com’è prerogativa di alcuni blogger, ma non ritengo che vi sia una e una sola regola soprattutto quando ci si riferisce al blog personale. Magari le mie scelte non sono tra le più produttive, ma preferisco essere onesto e includermi tra chi non è portato a scrivere di un evento in modo immediato…sperando di non fare categoria da solo!
Quando le manifestazioni volgono al termine, l’effetto dato dall’adrenalina e delle altre endorfine preferisco godermelo ripensando a ciò che ho visto e sentito, magari scrivendo qualcosa sui profili social, ma senza avere l’esigenza di inchiodarmi al PC durante il viaggio di ritorno, la sera stessa andando a dormire tardi o, al massimo entro le 48h successive.
A dimostrazione di quanto dico viene proprio questo post, riguardo al quale posso serenamente dire che la decisione di scrivere sulla mia partecipazione a #NarrAbility, IV Edizione del Convegno Nazionale di Storytelling (svoltosi il 28 Novembre scorso a Milano), è stato un processo spontaneo in cui tutto ciò che ho vissuto si è sedimentato e ha lavorato dentro di me sino a quando ho “percepito” che era arrivato il momento di condividerlo.

Riguardo a cosa sto facendo, il mio non sentirmi in ritardo “trova le sue radici” ideali nelle parole con cui, quell’esatto venerdì di qualche settimana fa Diana Bertoldi ha dato la sua personale descrizione di cosa voglia dire essere Storyteller o, se preferite, fare Storytelling:
“…riuscire ad ascoltare la pancia per portare avanti le proprie azioni, sinceri e puri.
Questa è l’alchimia necessaria affinché le storie riescano ad affiorare e si possa essere sicuri
di quanto ciò che emerge sia adatto per farlo in quell’istante.”                                                                          
Ma non è tutto qui. Mi sento anche giustificato (forse troppo…) nell’aver fuggito le imposizioni della mia razionalità, quel frutto dell’evoluzione che un po’ tutti dobbiamo imparare a gestire, che mi voleva vedere subito a capo chino su questo pezzo per averlo finito entro l’1 dicembre. Come sia stato possibile evitarlo? Per spiegare anche questo faccio ancora appello alle parole di Diana la quale, percorrendo il palco su e giù a piedi nudi, ha suggerito come fare per capire se ciò che esce dalla nostra bocca o finisce su un foglio sia autentico o, piuttosto, il frutto di un pensiero:
“…immediata, sicura ed emotivamente neutra è l’intuizione.
Per questo è destinata a sparire e dentro di noi non ne rimane l’impronta.
Se, invece, ne abbiamo traccia siamo di fronte a qualcosa di non autentico,
bensì frutto di elaborazione razionale.”

D’altronde, nel suo introdurre l’evento, anche Alessandra Cosso ha spiegato come sia centrale comunicare in modo autentico per descrivere luoghi in cui si è stati e le persone incontrate:
“la scelta di narrare una storia quanto quella di riferire un fatto di cronaca
diventa tale quando si utilizzano degli strumenti in grado di riportare al centro l’essere umano
Ed è proprio come descritto da quest’ultimo pensiero che mi sono sentito questa mattina nel prendere la decisione di scrivere questo post. Come lei stessa ha ribadito nel successivo intervento, mi sono sentito, anche solo in parte, come un “animale narrante abitato da Mondi Narrativi”. Seguendo la formula citata da Martino Gozzi: ho messo il sedere sulla sedia, niente Internet o telefono e via a collegare segnali e significati presenti nella mia coscienza / memoria dell’evento per creare dei nodi narrativi e, da essi, la storia che questo post rappresenta.
E allora, fedele a quanto appena detto come Penelope lo fu nell’attendere Ulisse, proseguo nella tessitura del mio racconto del convegno passando a parlare di quelli che sono gli attuali principi attorno a cui ruota e s’ispira la narrazione oggi.
Dopo due donne e un uomo non poteva che essere invocata la parità, e con nessun altro se non con Andrea Fontana, l’anima dello Storytelling made in Italy poteva essere ristabilita. Lui ha scelto l’escamotage quanto mai fanciullesco dello Scarabeo, gioco con cui tutti siamo cresciuti, la parola Narrability è diventata la traccia principale di una storia, l’anima di un racconto che nel resto della giornata avrebbe toccato arti, mestieri e territori tra i più disparati.   
Premessa (fatta dallo stesso Andrea e che sottoscrivo nonostante debba tutelare, da copywriter, la lingua italiana): la scelta del termine inglese è frutto del fatto che le due possibili traduzioni, raccontabilità e narrabilità, non riescono a restituire né il concetto di competenza nel creare delle storie né il bisogno primordiale di raccontarle da cui tutto ha origine, come abbiamo visto prima.
Venendo al dunque, a ogni lettera che compone il titolo della manifestazione, Andrea ha affiancato una parola e specificato una prerogativa di cui la capacità narrativa non doveva assolutamente essere sprovvista. Io, per completare il mio racconto ho scelto di affiancare, quando era il caso, interventi e relatori che risultassero esemplificativi in tal senso.

come Now:
ciò che raccontiamo risulta sempre un qualcosa che ha profondi legami con il momento che si sta vivendo a tal punto da sembrare una rappresentazione in streaming del nostro pensiero e delle nostre emozioni:
Lorenzo Gangarossa, Progetto Italy in a Day il primo social movie nato dal montaggio di più di 2000 ore di girato che rappresenta che cosa accade nelle 24h di una giornata;  
come Ability:
una volta che si ha una confidenza con le narrazioni, percorso che richiede molta sperimentazione e ascolto, ci si può mettere al servizio della collettività o dell’impresa per collaborare insieme alla costruzione di una storia o al recupero di valori importanti:
Massimo Benedetti, Strada del Riso Vercellese di Qualità; percorso di educazione alla narrazione come veicolo di informazioni sul proprio territorio per sentirsene custodi e ambasciatori;
come Role:
ciascuno di noi, solo nel momento in cui fa una scelta consapevole di condivisione, ha un ruolo all’interno di una narrazione e, grazie a essa, fa emergere la propria identità e le sue dinamiche relazionali:
Alessandra Cosso, L’esplorazione della realtà mediante le fiabe, si tratta di strumenti utilizzabili nei percorsi di coaching, di counseling e di medicina narrativa (che vedremo meglio in seguito) volti a far emergere gli immaginari delle persone e le problematiche sia emotive sia relazionali che stanno vivendo;
come Row:
qualsiasi tipo di narrazione si stia portando avanti, è imprescindibile decidere una sequenza agli eventi. Quest’aspetto sarà comunque e sempre influenzato dal nostro punto di vista per cui sia di ciò che ci riguarda sia di ciò che riguarda gli altri potranno nascere prospettive diverse che contribuiscono alla formazione di un pensiero collettivo:
Martino Gozzi, Montaggio ed Esperienza - Lo Storytelling in 9 scene memorabili, narrazione vuol dire ispirazione ma anche disciplina senza la quale mettere insieme gli elementi per dare origine a una storia di senso compiuto non sarebbe così facile;
come Anywhere:
qualsiasi luogo può diventare oggetto della narrazione, non soltanto una persona, perché si può sempre entrare in contatto con qualcosa che non appartiene al presente (non-luogo) ma ha dei contorni bene definiti perché comunque ha avuto una collocazione fisica e dei protagonisti. Specialmente nella narrazione del territorio, se la narrazione è ben costruita, il non-luogo può addirittura tornare a vivere:
Manuele Cecconello e Francesca Conti, Storie di Lana, programma di innovazione sociale che ha permesso la promozione della cultura del territorio per favorire il turismo e valorizzarne i prodotti, attraverso la condivisione di un patrimonio che sarebbe rimasto di pochi;
come Beauty:
la storia, per quanto debba rimanere strettamente legata al proprio contenuto e al suo carattere positivo / negativo, non deve essere priva di tratti suggestivi senza i quali non potrebbe definirsi una vera e propria storia;
come Illness:
come è successo nei primi stadi evolutivi del genere umano, il bisogno di raccontare nasce dalla necessità di esternare la propria insicurezza. Funziona come una richiesta più o meno velata di aiuto e di supporto di fronte a ciò che ci accade nella vita o intorno. Si può trattare di vicende che hanno bisogno di una soluzione o meno, ma per le quali la condivisione di ciò di cui si è avuto esperienza è già una risposta di per sé:
Micaela Castiglioni, Medicina Narrativa, ovvero che cosa c’entrano i medici con le storie?  In certe situazioni, i problemi di salute possono far sperimentare all’individuo un’incertezza radicale e fatica a ritrovare un senso per la propria vita. Spesso si aggiunge l’atteggiamento del curante che non si prende correttamente carico di chi soffre facendolo  diventare il luogo e non l’agente narrante della malattia (un mero progetto medico). Il medico o l’infermiere che ha a che fare con le storie cosa deve fare? Ascoltare le biografie ma anche prendersi il tempo di appuntarsele. Senza prendere coscienza delle sfumature antropologiche della malattia non riuscirà a comprenderla in pieno,  rappresentarla al paziente e accompagnarlo nel percorso di cura;
come Loyalty:
fedeltà e rispetto del soggetto di cui si parla sono un atto dovuto nei confronti del pubblico, altrimenti viene meno in modo automatico ed evidente lo scopo di creare coscienza e consapevolezza sull’oggetto della narrazione;
come Image:
sia per dare quel carattere suggestivo di cui si parlava prima, sia per permettere una rappresentazione migliore, la storia deve riportare scenari reali per poi crearne di alternativi servendosi di immagini, metafore, etc.;
T come Time:
si tratta del fattore dominante attorno cui ruota il successo della storia. Riuscendo a coinvolgere me stesso, sono nelle condizioni di poter gestire il ritmo della narrazione e valorizzare il contesto in cui vado a calare la storia dandone differenti prospettive spazio-temporali;
come You:
il mio centro di gravità quando mi confronto con la necessità di far emergere la vicenda di qualcuno o di un luogo attraverso un racconto, deve essere sempre l’altro poiché dovrà essere lui a beneficiare di ciò che andrò a illustrare.
Alcune presentazioni sono rimaste fuori, ma a essere sincero nemmeno gli appunti sono potuti venire in soccorso perché rimangono troppo lontane dal fil rouge che ha ispirato questo post.
A questo punto non mi rimane che invitarvi a tenere sotto osservazione il sito web dell’Osservatorio di Storytelling per trovare foto e altri estratti della giornata che vi aiutino a capire meglio il profumo di storie che si respirava quel giorno e augurarvi di poter prendere parte a eventi tanto intensi ed appaganti.


Andrea

lunedì 17 novembre 2014

Il pensiero e la parola possono far ammalare, dare sollievo se non addirittura guarire!


Cari amici,

oggi ho avuto il piacere di leggere un'intensa e coinvolgente intervista fatta al Prof. Enzo Soresi, dalla quale ho avuto un'ulteriore conferma di quali siano e quanto affascinanti possano essere i meccanismi che permettono a parole e suggestioni di avere un potere terapeutico.

Per spiegarvi brevemente chi lui sia come persona e per rendere l'idea delle idee che porta avanti, preferisco affiancare all'inevitabile lista di qualifiche accademiche e professionali, le sue stesse parole.

Nella realtà, siamo di fronte ad un tisiologo, anatomopatologo e oncologo, primario emerito di pneumologia al Niguarda di Milano, ma questa non è che solo una parte di un uomo che, dentro di sé, "Si considera un tuttologo, al massimo un buon internista, che ha scoperto l’importanza della neurobiologia studiando il microcitoma" (un tumore polmonare di a componente neuroendocrina).

Dalle parole dell'articolo che vi consiglio di leggere, sebbene riporti numerosi approfondimenti scientifici (solo in apparenza di difficile comprensione), l'aspetto veramente interessante che emerge, è stata l'immensa curiosità che ha spinto questa persona a osservare, sperimentare e imparare in modo costante, durante l'esercizio quotidiano della professione così come quando ha smesso di frequentare ambulatori ed ospedali. 

Prova ne é il suo essere profondamente convinto che: «[...] la medicina non è una vera scienza. Tuttalpiù una scienza in progress»

Nei dieci anni di intenso e insaziabile studio cui si è dedicato da quando ha terminato di esercitare, la sua missione è stata quella di comprendere le ragioni per cui il cervello possa avere un ruolo efficace sull'innesco, attenuazione o soppressione delle patologie. 

Al contrario di quella che è la tendenza della medicina moderna, la quale tende ad analizzare in modo separato i malfunzionamenti del nostro organismo perdendone la visione d'insieme, Soresi propende, infatti, per un'ipotesi che vede la nostra salute dipendere da un network formato da sistema endocrino, sistema immunitario e sistema nervoso centrale. 

Non a caso, la strada che personaggi come lui stanno percorrendo da anni, è quella di un ritorno alla medicina integrata, una delle cui ultime sfide «si chiama Pnei, psiconeuroendocrinoimmunologia, una nuova grande scienza, trascurata dalla medicina perché nessuno è in grado di quantificare quanti neurotrasmettitori vengano liberati da un’emozione.»

Come dice lui stesso, il sistema immunitario «...ci difende e ci organizza la vita. Di più: ci tollera.» la cellula che può essere presa a riferimento del suo coinvolgimento su più livelli «...è il linfocita, un particolare tipo di globulo bianco che risponde agli attacchi dei virus creando anticorpi. [...]», ma che è in grado di «...produrre ormoni cerebrali.» in seguito agli shock emotivi a cui ci riferivamo prima.

Per capire quale sia il legame tra emozione e rilascio di neurotrasmettitori ed ormoni senza addentrarsi in questioni troppo scientifiche, basta tenere conto di una sostanziale differenza che esiste tra il grado di sviluppo del cervello e quello degli altri organi o apparati al momento della nascita.

Infatti, ci stiamo riferendo ad un organo che non risulta completamente definito e vede il termine di questo processo solo con il raggiungimento dei terzo anno d'età. 

Il meccanismo prevede, nella pratica, un processo di selezione naturale delle cellule che lo andranno a comporre, ma, aspetto sicuramente di maggior interesse nell'ottica del nostro discorso, è stata la scoperta una strettissima correlazione tra ciò e i forti condizionamenti che possono venire dall'ambiente esterno, inclusi anche i genitori.

Un discorso simile, solo in quanto a tempi e modi si sviluppo però, vale per le nostre difese immunitarie che vedono una prima fase di acquisizioen della competenza che inizia a livello della vita intrauterina, per poi completarsi quando l'individuo entra a contatto con il mondo esterno. 

L'attività che lo accomuna e unisce al cervello nel decretare il potenziale e la capacità di reagire nelle situazioni critiche, è la secrezione da parte di entrambi delle molecole segnale per definizione: le citochine (4 interferoni che aiutano le cellule a resistere agli attacchi di virus, batteri, tumori e parassiti, e 39 interleuchine, ognuna con una funzione specifica)

Non c'è quindi da stupirsi se Ippocrate aveva già definito il cervello come una ghiandola "mammaria" poiché affianca altri ruoli oltre a quella endocrina che lo vede produrre, di default, i neurotrasmettitori cerebrali serotonina, dopamina e le endorfine

Semplificando un po', «se sono allegro e creativo libero citochine che mi fanno bene, se sono arrabbiato e abulico mi bombardo di citochine infiamamtorie» che creano dei danni gratuiti all'organismo. Ecco il motivo per cui un approccio alla cura che comprenda l'ascolto delle emozioni del paziente o voglia anche solo spendere del tempo per comprenderne la sensibiltà, avrà nelle emozioni positive che saprà dargli un potente alleato per farlo stare meglio.



Nel caso vogliate ascoltare direttamente dalle parole del Dott. Soresi ulteriori approfondimenti rigurado alle quastioni e ai meccanismi scientifici di cui ho parlato nel post vi invito a guardare il video e a comprare due dei testi da lui scritti di recente:
Il cervello anarchico, 2013, UTET; di Enzo Soresi (con prefazione di umberto Galimberti) 
Guarire con la nuova medicina integrata, 2012, Sperling & Kupfer; di Enzo Soresi, Pierangelo Garzia e Edoardo Rosati 

Andrea

domenica 19 ottobre 2014

Presentazione del libro Scriverne fa bene. Milano, 25 Ottobre 2014

Cari amici,

in alcuni post di questo blog oppure all'interno della pagina dedicata a Medicina Narrativa e Storytelling che curo sulla piattaforma Scoop.it, ho dato ampio spazio al tema del Blog quale strumento di terapia per le persone che vivono su di sé una malattia, o sono a stretto contatto con chi ne soffre.

Prima dell'estate, periodo in cui la tematica della narrazione come strumento di cura è tornata alla ribalta, avevo pubblicato una serie di video trovati sul sito di Repubblica (partner di uno dei più grandi e prolifici progetti di Medicina Narrativa che si sono svolti in Italia, Viverla Tutta).

In uno di questi, una donna parlava brevemente di sé e di come fosse nata la decisione di condividere la propria storia di paziente e quali emozioni avessero contraddistinto il lungo e difficoltoso percorso di cura.


La persona in questione era Giorgia Biasini, autrice del libro "SCRIVERNE FA BENE. Narrare la malattia, curarsi con un blog" di cui vedete la copertina qui di seguito:

Sono particolarmente felice di annunciare che la settimana prossima vi sarà una presentazione di questo testo che vedrà la presenza della stessa Giorgia Biasini e della giornalista Silvia Rossi studiosa di letteratura, scrittura auto-biografica e medicina narrativa

L'incontro avverrà il 25 ottobre prossimo a Milano, presso la Biblioteca Parco Sempione.

L'orario di inizio è fissato per le 16 e l'ingresso libero sino ad esaurimento posti, motivo per cui vi invito a prenotare, se interessati.

Ci tengo molto a ricordare quanto sia stato importante nel percorso di genesi di questo libro il lavoro svolto da uno tra i più famosi metablog di Blog-terapia: Oltreilcancro.it il quale, come recita il paragrafo che ne spiega la ragione d'esistere, è

"un progetto nato per condividere storie e vite di persone che hanno dovuto, o devono, affrontare il cancro e hanno deciso di raccontare la propria esperienza in un blog, scoprendo che parlarne, scriverne è di grandissimo aiuto.

E' in luoghi di incontro e condivisone come questi che nasce la forza di continuare a lottare e, soprattutto, restituire quel senso che la malattia sembrava aver strappato alla vita di ognuna di queste persone.

Qui di seguito i file PDF dell'invito e della locandina relativi all'evento:

INVITO:
https://drive.google.com/file/d/0B_VQtvOGpjhlblZnQ2g4TFdkX1hTNGQ0SEZ0UnlxLS1Pd3ln/view?usp=sharing

LOCANDINA:
https://drive.google.com/file/d/0B_VQtvOGpjhlQXU4blRDLVpxZ2gxbTBuTnlDcng3N2hKZzFz/view?usp=sharing

A presto,

Andrea